STICH
…”Siamo andati nelle piazze che tutto il mondo ci invidia” e analizza, ironico ed affettuoso, l’evoluzione del Paese, “più difficile da spiegare di una rivoluzione: raccontare piazza Tien An Men è stato più facile che raccontare piazza Sant’Oronzo a Lecce”. (B.Severgnini)
La visione della realtà e la sua decodifica in termini fotografici hanno trovato negli ultimi anni, grazie all’evoluzione dei sistemi digitali (sia di ripresa che di elaborazione), delle nuove e ancora sconosciute forme di interpretazione e riproduzione, nuove possibilità stilististiche, e se vogliamo, di sintassi linguistica della fotografia.
La ricerca alla quale ultimamente sto lavorando parte dalla fotografia di architettura urbana (estendibilile all’architettura archelogica e del paesaggio) testimone immobile della nostra quotidianità in continuo movimento ed evoluzione.
La possibilità di eseguire “montaggi” di immagini sempre più perfetti mi ha suggerito anche la possibilità di “sfruttare” il tempo fotografico che intercorre tra uno scatto e l’altro, e cercare di mettere in evidenza il susseguirsi di fatti che accadono all’interno della scena scelta come teatro dell’immagine.
I “fatti” (persone, auto, pulman, etc.) si intersecano fra di loro, si fondono gli uni con gli altri all’interno di un paesaggio architettonico che diventa contenitore, “teatro”,“spettatore”, di un concetto di caos, (una sorta di “caos calmo”). Quasi un’inversione di ruoli dunque, e non necessariamente (o non solo), immagini di un’architettura urbana.
Le riprese fotografiche (dalle 70 alle 120 immagini), che vanno a confluire inun’unica immagine finale, scattate a distanza di tempo fra una e l’altra, sia esso una frazione di secondo o qualche minuto se non decine di minuti, si intersecano fra loro creando una sorta di “movimento” nel tempo e nello spazio. Un caos di umanità in contrapposizione alla calma degli elementi architettonici e di arredo urbano.
I luoghi scelti per queste prime opere fotografiche sono luoghi noti della realtà torinese (città dove sostanzialmente vivo e lavoro), volutamente luoghi riconoscibili, all’interno dei quali si svolge la vita quotidiana di una città.
Credo che questa riconoscibilità del luogo dia all’immagine una sorta di “documentarismo” alla fotografia e quindi ne consenta una lettura, se vogliamo, meno spettacolare. Quindi la lettura si sposta da una prima percezione più “pacata” ad una diversa e non tanto spettacolare, ma di “svolgimento” di azioni in quello spazio dato e nel tempo.
Questa percezione viene resa possibile dal forte ingrandimento delle immagini, (direi ingigantita), stampate in misura di circa 2 metri di larghezza.
Di questo progetto dice Liborio Termine, docente di storia e critica del cinema al DAMS di Torino.
Considero il progetto che presenta Mariano Dallago di grande interesse perché in grado di introdurre nuove articolazioni nel linguaggio fotografico e perciò realmente innovativo.La fotografia – come si sa, e l’ha detto anche Barthes – è l’arte che più si avvicina al teatro; e Dallago è fotografo che, lungo la sua carriera, ha dato prova di saper accostare le architetture non solo con forza e raffinatezza espressive, ma anche con quella precisa cognizione che le rappresenta come il luogo teatrale, la scenografia più propria del paesaggio urbano.Con l’esperimento che si propone di realizzare, e considerando l’efficacia del metodo e i primi risultati raggiunti, a me pare che Dallago riesca a introdurre nella staticità dei luoghi ripresi quello spaesante flusso di movimenti degli uomini e delle macchine che, mentre danno percezione inedita a ritagli della vita quotidiana così animando una specie di “teatro antropologico”, riescono a costituire l’atto della visione in organizzazione e forma del pensiero.Ciò che, in questo quadro, mi pare ancora utile sottolineare è che, nelle procedure impiegate da Dallago, viene del tutto evitato quel “cinetismo” che nasce dalla contaminazione dei linguaggi (filmico e dell’arte figurativa, in particolare) e che contiene sempre una impurità che lo rende artificioso appena assunto dalla fotografia.Nelle immagini di Dallago, che sembrano declinarsi al plurale, infatti, il linguaggio fotografico, proprio perché sottoposto a una interrogazione radicale e spinto sino ai limiti estremi delle sue possibilità, mi pare che dia ancora prova di risorse insospettabili e di insospettabili nuove organizzazioni visive che esso apre sul reale e sull’essere dell’uomo nella realtà.Per tali caratteristiche, mi sembra che ogni “scatto” non esaurisca la sua vocazione nell’ambito estetico, ma ambisca anche a porsi come autentico “scatto della o sulla storia”.